Poesie e racconti anti–capitalismo
© Copyright 2017 Antonio Bonifati.
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2ª edizione. Libro pubblicato a cura dell’autore.
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La storia e i nomi dei personaggi dei seguenti
racconti e poesie sono opera di fantasia. Ogni
riferimento a persone, cose o fatti realmente
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Ringrazio il Prof. Mario Coronello per i preziosi
consigli e il paziente lavoro di editing del testo.
dell'autore
"Oggigiorno si conosce
il prezzo di tutto,
ma non si conosce
il valore di niente"
– Oscar Wilde
Prima di 20.000 anni fa l'uomo era
cacciatore e raccoglitore. Poi è iniziata
l'agricoltura e l'allevamento, una forma
primitiva di tecnologia. Infatti il carro, la
zappa, l'aratro, il mulino sono state le
principali realizzazioni tecniche di questo
periodo.
Con l'agricoltura l'uomo, invece di
essere nomade e spostarsi per raccogliere
quello che nasce spontaneamente nel
luogo dove ci sono le condizioni affinché
questo avvenga da sé, si è stabilito in un
posto e ha cercato lui stesso di creare le
condizioni per far nascere in quel posto
tutto quello di cui aveva bisogno.
Questa sua idea si è spesso rivelata
problematica e soggetta a insuccessi. Già
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il solo fatto di indovinare il momento
giusto per la semina è difficile, mentre se
le sementi si trovano già in terra, la natura
sa quando è meglio farle spuntare e ogni
anno i tempi sono diversi.
Inoltre è spesso difficile immaginare
quali possano essere le conseguenze del
lavoro umano che interferiscono con il
corso della natura.
Ad esempio, zappando la terra nel
periodo invernale o autunnale, si può
accelerare la crescita di alcune piante,
come ad es. le fave, ma se poi arrivano i
geloni, le piante più sviluppate di solito
non resistono, mentre quelle cresciute più
lentamente secondo natura subiscono
meno danni ed hanno maggiori capacità di
ripresa e comunque accelerano la loro
crescita durante la prima primavera.
L'uomo, già con questa sua prima forma
di tecnologia, l'agricoltura, ha pensato di
volersi sostituire alla natura ma, non
potendone
avere
una
conoscenza
completa, è rimasto spesso con iscorno e
beffato. Non è nemmeno detto che la
natura sia conoscibile. Potrebbe benissimo
darsi che, come sosteneva il filosofo
giapponese Masanobu Fukuoka, essa sia
inconoscibile; difatti a tutt'oggi rimane
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ancora qualcosa di magico come lo era
per l'uomo primitivo.
Per quanto i nostri mezzi di indagine si
stiano facendo sempre più precisi per
indagare il piccolo dell'atomo e il grande
dell'universo, non sembra che ci sia un
traguardo
che
completi
la
nostra
conoscenza; anzi, man mano che la
conoscenza
scientifica
aumenta,
si
aggiungono domande su domande che
diventano sempre più raffinate e difficili.
Tornando all'agricoltura, l'uomo sperava
di poter soddisfare con essa più facilmente
i suoi bisogni, ma in realtà il lavoro
necessario non diminuì. Con la formazione
delle prime città i problemi anzi
aumentarono. Concentrare un elevato
numero di persone in uno spazio ristretto
ha creato problemi ambientali, igienici, di
approvvigionamento, trasporti e sicurezza
e non ha aumentato la ricchezza e la
felicità umana.
Per secoli il mondo è andato avanti così:
schiavitù, servi della gleba, colonialismo,
imperialismo,
sfruttamento
del
proletariato da parte di una élite che
accampava
diritti
di
nobiltà
e
intermediazione religiosa con Dio, e che in
seguito è stata sostituita dai ricchi
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proprietari
dei
mezzi
di
produzione industriale.
Sono queste brutte cose che hanno
permesso solo a pochi uomini di vivere nel
lusso, mentre a tutti gli altri non è stata
concessa che una miserabile vita, spesso
avulsa persino dal contatto con la natura
incontaminata e dalla sua gratuita
generosità.
A distanza di non più di 3 secoli
dall'inizio della rivoluzione industriale,
nonostante le apparenze, la situazione non
è sostanzialmente migliorata, anzi per
certi
versi
è
andata
sempre
più
peggiorando. La tecnologia ha continuato
a fare progressi, dai telai meccanici e dalle
macchine a vapore si è passati ai cellulari
e ai computer, ma il lavoro dell'uomo non
è diminuito.
Nonostante la tecnologia, abbiamo
meno tempo libero di prima. Le nostre
necessità di base sono le stesse di
130.000 anni fa: il cibo, un riparo contro le
intemperie e vestiti per difendersi dal
freddo, ma non sono ancora garantite per
tutti.
Oggi esiste un grande substrato di
economia dei servizi e del commercio, ma
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la base economica rimane sempre la
produzione del cibo e degli oggetti utili
alla sopravvivenza, che sta diventando
sempre meno qualitativa e problematica.
L'inquinamento e la poca disponibilità di
cibi freschi e naturali ha minato la salute
dell'uomo, diminuendo la sua aspettativa
di vita, nonostante la sua presunzione di
poter capire il funzionamento del corpo
umano e curarlo con la medicina.
Ma in realtà il corpo dell'uomo è una
complessa manifestazione della natura ed
è probabile che sia anch'esso inconoscibile
come la natura stessa.
La
grossolana
tecnologia
medica
dell'uomo difatti cura, e spesso altrettanto
grossolanamente,
solo
i
sintomi
o
manifestazioni esterne delle malattie e
non ha idea delle cause interne.
L'ignoranza dell'uomo è tale che il suo
intervento spesso produce pericolosi
squilibri: nel tentativo di curare o anche
solo prevenire una malattia, se ne possono
causare altre ancora più gravi.
Per soddisfare questi suoi bisogni di
base,
più
altri
spesso
inutili
e
insoddisfacenti, l'uomo di oggi è costretto
a lavorare anche più dei primitivi e spesso
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in condizioni peggiori: sotto stress, in un ambiente inquinato e senza maggiore
garanzia di successo di quella che
avevano i primi contadini.
Com'è stato possibile che l'avanzamento
tecnologico
non
abbia
migliorato
decisamente le condizioni generali di vita
di tutti?
Da una parte perché la tecnologia è
stata abusata e spesso usata contro
natura, senza chiedersi quali fossero le
conseguenze e senza nemmeno imparare
dai propri errori. Questo ha certamente
diminuito il valore e l'effetto della
tecnologia, ma non basta da solo a
spiegare il mancato benessere per tutti.
La risposta è ovvia: la diseguaglianza.
Come dire, per ogni 100.000 poveri c'è un
ricco. Ancora oggi c'è un ristretto numero
di persone che si è arricchito a dismisura,
mentre la maggior parte della gente
lavora per loro.
Questo tipo di organizzazione sociale ed
economica fortemente antidemocratica è
stata imposta dall'alto come la migliore
possibile. Si tratta della più grande truffa
perpetrata ai danni delle masse, ma le
proteste sono state pochissime.
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Il sistema economico capitalista ha un
andamento ciclico instabile e produce crisi
periodiche. Nel mio paese, l'Italia, il
capitalismo non ha mai funzionato in un
regime
di
vera
legalità
e
libera
concorrenza. Piuttosto è degenerato in
corruzione, malapolitica e criminalità, con
il risultato che le risorse naturali, artistiche
e intellettuali del paese sono state
rovinate.
Intere generazioni, formate da giovani e
non, sono oggi ridotte in povertà maggiore
dei loro nonni e sono sempre di meno le
categorie di lavoratori che riescono a
mantenere i loro diritti. L'emigrazione
giovanile ha privato il paese dei migliori
cervelli, consegnando al capitalismo
estero risorse che spesso non sono state
adeguatamente apprezzate nemmeno nel
Paese di arrivo. Eppure non c'è stata
alcuna protesta, nemmeno una flebile
manifestazione di dissenso.
Gli Stati dovrebbero porre un freno ai
guadagni dei singoli, introducendo sia un
limite superiore sia uno inferiore di reddito
individuale. Ma piuttosto che occuparsi del
benessere della gente essi sono servi dei
padroni capitalisti e nessuna misura di
questo genere è stata mai presa, in
nessuno Stato del mondo.
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Il capitalismo è stato lasciato libero di agire, con la vana speranza di una sua
auto-regolazione
e
automatico
funzionamento, ma questo capitalismo
selvaggio si è rivelato essere il peggiore di
tutti i possibili sistemi economici.
Dopo tanti fallimenti, oggi l'unica via
d'uscita per salvare la terra dal degrado e
dall'inquinamento,
produrre
stabilità,
rendere di nuovo la gente felice di vivere è
il ritorno alla civiltà contadina e agli
antichi mestieri, ad una vita più semplice
e vera ed a contatto con la natura, dove la
produzione non è fatta di oggetti tutti
uguali, ma al contrario tutti diversi,
artistici e personalizzati.
L'uomo deve riconoscere di aver
sbagliato e deve fare un gran passo
indietro. Le città sono strapiene come
formicai, care, inquinate e piene di ladri,
mentre le campagne o sono spopolate o
vengono straziate dalle imprese agricole,
che producono intensivamente quel cibo
insipido e pieno di chimici per sfamare più
del 50% della popolazione che vive
concentrata nelle città.
Però manca la volontà dei politici e
anche quella del popolo per attuare tutto
questo. Se questo mio libro potrà aprire gli
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occhi alla gente allora avrà avuto uno
scopo. Purtroppo il riconoscimento di un
male è inutile se poi ci facciamo vincere
dalla pigrizia e non passiamo all'azione
necessaria per combatterlo.
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Racconto breve
Parigi. Champs–Élysées. Un caffé con i
tavolini all’aperto in una placida sera
d’estate. Sullo sfondo svetta l’Arco di
Trionfo.
François è un pittore, che per vivere fa il
ritrattista di strada. Quando non ci sono
clienti in posa, disegna volti, conosciuti o
immaginari, che mette in bella mostra per
attirare i clienti.
Una limousine nera si ferma davanti al
caffé. Ne scende un uomo di mezz’età in
frac, dal volto tirato, seguito da due
guardie del corpo che si mantengono
rispettosamente a distanza e scrutano i
dintorni. Con espressione triste e annoiata
si siede ad un tavolino all’aperto e ordina
un caffé francese amaro e un croissant.
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guarda
attorno
distrattamente,
quando nota il pittore seduto sulla strada lì
vicino intento a disegnare. Uno scatto
improvviso quasi lo fa balzare in piedi, ma
riesce a trattenere la reazione fisica.
Quell’uomo gli somiglia paurosamente.
Se non fosse per la giacca logora e i
pantaloni con le pezze, le scarpe dozzinali,
il cappello sgualcito, non lo potrebbero
distinguere nemmeno le buonanime dei
suoi genitori.
Era come guardarsi allo specchio: i
lineamenti del viso uguali. La stessa fronte
alta, la grossa attaccatura del naso, il viso
lungo, gli zigomi alti e carnosi. Come se
non bastasse, i due dovevano avere
all’incirca anche la stessa età.
Philippe, questo era il nome del
magnate finanziario, era stupito da tante
coincidenze. D’improvviso il pittore, che
non aveva affatto notato gli sguardi curiosi
del suo sosia, si alzò ed entrò nel bar.
Philippe bevve un altro sorso di caffé,
ostentando tranquillità, per nascondere la
sua ansiosa irrequietezza agli occhi delle
guardie del corpo e, dopo pochi secondi,
entrò anche lui all’interno del caffé senza
fretta, attento a non mostrare la sua
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agitazione. Come di riflesso una delle sue
guardie del corpo lo seguì.
Philippe vide con la coda dell’occhio che
il pittore stava entrando nella toilette.
Allora ebbe un’idea, per liberarsi della
guardia che altrimenti non l’avrebbe perso
di vista un momento. Entrò anche lui nel
bagno. Così il gorilla si dovette fermare ad
aspettare fuori della porta.
– «Come ti chiami?»
– «François»
– «Lo sai chi sono io?»
– «No»
– «Sono Philippe Reinisch, il più grande
banchiere del mondo».
Al pittore, abituato a fissare i minimi
dettagli dei lineamenti dei volti, sembrava
guardarsi in uno specchio magico che, di
colpo, l’aveva trasformato in un gran
signore. Se non fosse stato in preda allo
stupore per la somiglianza così perfetta,
sarebbe arrossito per non sapere di quale
personaggio si trattava.
François non leggeva i giornali e non
aveva nemmeno tempo di guardare la
televisione. A dire il vero, non ce l’aveva
proprio la televisione e non avrebbe
potuto permettersela. Non c’era altro nella
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sua vita che la pittura e la preoccupazione
di tirare avanti e di non riuscire ad arrivare
alla fine del mese per pagare l’affitto del
suo squallido monolocale a Montmartre, il
quartiere degli artisti a Parigi.
«Ascoltami bene, non abbiamo tanto
tempo. Si tratta di uno scherzo.
Scambiamoci gli abiti. Dammi tutto, anche
i tuoi documenti; io ti darò i miei».
E gli mostrò un portafoglio pieno di
biglietti di grossa taglia e varie carte di
credito.
L’autorità dell’uomo e quel suo sguardo
serio e razionale era tale da incutere
paura e François cominciò a spogliarsi
come lui gli aveva ordinato. Nel giro di
pochi minuti lo scambio era avvenuto.
Philippe gli aveva ordinato di uscire,
pagare la consumazione e lasciare una
grossa mancia al cameriere, avviandosi
poi verso la limousine.
Gli aveva intimato di non rivelare a
nessuno la sua vera identità e lo scherzo
che avevano congegnato. E di chiedere
all’autista di farsi riaccompagnare qui alla
stessa ora dopo una settimana, quando
con lo stesso sistema avrebbero ripreso le
loro rispettive identità, promettendogli
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anche una forte somma di denaro alla fine
del gioco.
Lui, per non destare sospetti, sarebbe
uscito dalla toilette solo un paio di minuti
dopo e avrebbe preso il suo posto di
ritrattista.
In qualunque situazione si fosse trovato,
avrebbe dovuto comportarsi in modo del
tutto naturale. Eventuali dimenticanze,
stranezze e diversità sarebbero state
attribuite alla natura eccentrica di un ricco
piuttosto che alla sua diversa identità,
potendo stare sicuro che nessuno avrebbe
scoperto l’inganno.
«Un ultimo particolare ed è perfetto.
Cerchi di imitare la mia voce. Ci provi
adesso».
«Sì così va bene, non importa quello che
dice, basta che usi sempre un tono
autoritario. Qual’è l’indirizzo di casa sua?»
Philippe se lo segnò su un foglietto.
⁂
Tutto avvenne come previsto e François
nei panni di Philippe non destò alcun
sospetto nelle sue robuste guardie del
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corpo e persino il vecchio autista che lo serviva da sempre non notò alcun
cambiamento.
La macchina ripartì subito velocemente
in direzione dell’arco di Trionfo, proseguì
lungo il Viale della Grande Armata e sostò
presso il Palazzo del Congresso.
Qui si teneva una riunione a porte
chiuse di tutti i più grandi banchieri del
mondo. Il tema verteva sulla recente crisi
economica e le strategie per superarla
senza che che né le banche, né i politici
che aiutavano a sostenerne gl'interessi ne
subissero danni.
La discussione si teneva ad interventi
singoli. Chi voleva parlare si prenotava di
volta in volta premendo un bottone e
aspettando che venisse il suo turno. Solo
quando uno aveva finito, il prossimo in
coda rispondeva o esprimeva le sue
opinioni.
François, che non sapeva niente, tranne
il fatto che da quando si vociferava che
c’era la crisi, la gente s’era fatta più
parsimoniosa e lui vendeva meno ritratti,
ascoltò per un po’ le dichiarazioni di molti
altri banchieri, prima di decidersi a
prenotarsi per dire la sua, proprio in un
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momento caldo della discussione, quando
oramai s’era fatto un’idea di quali fossero
gli scopi e gl'interessi di questa gente, in
base a quello che s’era detto finora.
Fosse per divertimento, ma anche per
sfida, era deciso in tutto e per tutto a fare
la parte di Philippe il grande banchiere.
Del resto gli era sempre piaciuto fare
l’attore. Aveva sempre pensato che l’arte
è unica. Un artista è uno che imita la
realtà a modo suo. Così un pittore può
dipingere una faccia che immagina e un
attore può plasmare sul suo volto la stessa
espressione,
anch’essa
frutto
dell’immaginazione.
L’aria sorniona che François assunse
quando
disse
queste
parole
era
esattamente quella che l’attore–pittore
aveva in mente e avrebbe potuto
dipingere in tutti i particolari.
«Miei cari signori» disse.
«E’ chiaro che la crisi si supererà solo se la
gente è disposta a fare sacrifici