Un Ponte di Lettere by Duncan James and Valeria Malacasa - HTML preview

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UN PONTE DI LETTERE

Pubblicato da Duncan James

Traduzione a cura di Valeria Malacasa

Copyright 2012 Duncan James

UN PONTE DI LETTERE

Di Duncan James

arjorie Northcot morì all'improvviso. Venne fuori che si era trattato di un attacco di

Mcuore, ma fu un grande shock perché nessuno se lo sarebbe mai aspettato. Non

c'era stata alcuna avvisaglia, nemmeno un segno.

Non esiste un buon momento per morire; tuttavia, sebbene lei non avesse mai detto la

propria sull'argomento, quello era il momento peggiore che avesse potuto scegliere.

Suo marito, Maurice, si trovava all'estero. Lavorava per il Ministero degli Esteri, anche se

nessuno, nemmeno Marjorie, era sicuro di cosa facesse in pratica. Né nessuno era mai del

tutto sicuro di dove fosse. Però una cosa divenne chiara fin da subito. Non era 'all'estero' nel

senso che era andato ad una conferenza o qualcosa del genere. Lui stava viaggiando all'estero. Un ufficiale nel proprio ufficio pensava che Maurice fosse su un aereo per Singapore, mentre un altro lo credeva ad Hong Kong. Un tizio, un qualsiasi impiegato,

addirittura suggeriva che fosse andato in Corea, ma nessuno ci faceva troppa attenzione.

Non che Maurice avesse un vero e proprio ufficio, in effetti. Il posto in cui uno va al lavoro

tutti i giorni, perché quella è una cosa che Maurice non faceva mai. Andare in un ufficio.

Alla fine, quando erano riusciti finalmente a rintracciarlo, si scoprì che si erano tutti 1

sbagliati, come lui aveva voluto.

Era andato a Helnsinki, ma solo un paio di persone lo sapevano.

Così ci volle del tempo per trovarlo, e a lui, che in quel periodo stava viaggiando, ci volle

anche più tempo per tornare a casa e partecipare al funerale di Marjorie, rimandato di molti

giorni.

Non che la cosa facesse molta differenza per lei, naturalmente. L'unico che soffrì davvero fu

il figlio Peter.

Aveva solo dieci anni all'epoca, e adorava sua madre. Era dolce, gentile e affettuosa, ma

anche severa quanto bastava. Trascorreva più tempo possibile con Peter, e capì che ciò di

cui lui aveva realmente bisogno era un padre. Anche Peter lo capì, ma lo vedeva raramente

visto che era sempre in viaggio. Quando Maurice era a casa, però, i due erano come pappa e

ciccia. Giocavano a calcio, andavano a pescare, facevano lunghe camminate col cane, giocavano con i trenini; facevano di tutto. Ma sempre solo per un giorno o due alla volta,

mai di più. Sua madre non era capace di pescare, non giocava a calcio né si divertiva a

guardare le partite, e non se ne intendeva di ferrovie, vere o finte che fossero.

Tutto d'un colpo, Peter divenne un ragazzo molto solo. Non aveva una madre, e nemmeno

un vero padre.

Non ebbe il tempo di chiedersi cosa gli sarebbe successo, perché accadde comunque, e

all'improvviso. La zia Elisabeth si trasferì da lui, in quei giorni, soprattutto per badare al

nipote. Dopo il funerale, quando finirono di impacchettare tutta la roba di Peter, i giocattoli,

i libri, i vestiti, lo portarono a casa loro. Finì col restare dagli zii per sempre, con la zia

Elizabeth e lo zio Norman. La sua vecchia casa fu messa in vendita, e suo padre comprò un

piccolo cottage lontano.

Adesso, non c'era niente che non andasse con la zia Elizabeth, o suo marito, lo zio Norman,

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che era un tipo OK. Ma non erano degni sostituti di una vera mamma e un vero papà, non

avevano figli loro, così Peter non aveva ancora nessuno a casa con cui giocare. E comunque,

era tanto strano per loro avere Peter a casa quanto lo era per lui stare con gli zii. Inoltre,

divenne presto evidente che non stava semplicemente lì, lui viveva lì. Questa era la sua

nuova casa. Lo zio Norman e la zia Liz avevano una bella casa, in una zona di campagna,

avevano un cane, e avevano un giardino bello grande dove potevi dare due calci ad un

pallone senza scocciare i vicini, che, tra l'altro, erano anche loro OK, e la scuola lì vicino

dove venne mandato era migliore di quella che aveva lasciato subito dopo avere iniziato a

frequentarla, sotto diversi punti di vista.

Ma in qualche modo non era casa sua, e non lo sarebbe mai stata.

Peter e il cane andavano molto d'accordo; si fece molti nuovi amici là, a scuola, e chissà

come, sembrava imparare un sacco di cose. Probabilmente era abbastanza felice,

considerando lo stress e il cambiamento radicale che aveva passato negli ultimi tempi. Ma

non vedeva l'ora di vedere suo padre, nelle rare visite che riusciva a fargli. Sapeva che non

poteva visitarlo più spesso, però, per alcuni mesi, lo vide molto più spesso di quando sua

madre era ancora in vita. Ma non era comunque abbastanza, e le visite divennero presto

sempre meno frequenti.

Un giorno, non molto tempo dopo che Peter si era trasferito nella nuova casa, suo padre gli

spedì una lettera. Non c'erano molte notizie in essa, e il papà non disse dove si trovava; ma

la busta aveva un francobollo di Londra, così Peter immaginò che non stesse "viaggiando".

Mio caro Peter,

Ho pensato di scriverti due righe giusto per vedere se stai bene, e

di mandarti tutto il mio affetto. È stato meraviglioso rivederti

l'altro giorno, e vorrei tanto poterti vedere più spesso, ma sai che

il mio lavoro mi tiene un bel po' lontano da casa. Temo che per

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questo viaggio dovrò stare lontano per parecchio tempo. La zia e

lo zio mi hanno detto che stai bene, e spero che stai iniziando a

trovarti bene con loro. Sono brave persone e ti vogliono bene,

quindi sono sicuro che starai bene con loro. Ma so che non è

uguale a stare a casa tua, e forse un giorno potremo vivere

insieme in una casa tutta nostra. Sarà bellissimo, ed è una cosa

che devo cercare di realizzare. Mi hanno detto che sei bravo a

scuola, il che è una bella notizia, quindi continua a lavorare

sodo. Se avrai tempo, mi piacerebbe ricevere una tua lettera per

avere tue notizie. L'indirizzo che trovi in cima va sempre bene.

Con amore, papà.

L'indirizzo in cima era solo 'Dip. OS 19, Ministero degli Esteri, Londra, Sud-Est 1'.

Peter gli scrisse a sua volta, quasi subito, pensando che suo papà avrebbe fatto lo stesso.

Caro papà,

Grazie per la tua lettera. Spero che tu stai bene. Io sto bene e mi sto abituando.

Però mi manchi e mi manca anche la mamma ovviamente.

La scuola va bene e sto giocando a calcio. Abbiamo iniziato Francese che mi piace

e sono bravo. Per favore rispondi presto.

Ti voglio bene, Peter

Ma non rispose presto. Infatti non scrisse per circa un mese, durante il quale Peter gli aveva

spedito almeno altre due lettere. Finalmente riuscirono a mantenere una corrispondenza

abbastanza regolare, che, col tempo, divenne l'unico contatto fra loro, visto che Maurice

trascorreva sempre più tempo all'estero. Le sue lettere non contenevano mai molte notizie, e

sembravano essere imbucate sempre da Londra. "Non ho mai molte notizie, non

mi succede mai niente di importante da raccontarti. Lavoro sempre e

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basta" , gli spiegò una volta. Peter, al contrario, aveva sempre molto di cui parlare, e più cresceva, più gli piaceva scrivere della propria vita. Suo padre sapeva benissimo che andava

bene a scuola, e che era particolarmente bravo nelle lingue straniere. Alla fine iniziò a

parlare del proprio futuro, e pensò addirittura che un giorno avrebbe potuto entrare nell'esercito, se prima fosse riuscito ad andare all'università. Maurice fu contentissimo di

leggere quella notizia, e lo sostenne fermamente.

Era passato qualche anno da quando Peter e suo padre si erano visti, e in tutto quel tempo il

loro scambio di lettere fu mantenuto a tal punto che i due sentivano di conoscersi piuttosto

bene. Ma Peter era curioso di saperne di più sul lavoro di suo padre, e dove si trovasse, e

così una volta telefonò addirittura al Ministero degli Esteri. In realtà non sapeva da dove

iniziare, così chiese di farsi passare il misterioso "Dip. OS 19".

"Vorrei sapere dove si trova il Signor Maurice Northcot, per favore," chiese all'uomo che

aveva risposto al telefono.

"Mi dispiace ma non sono autorizzato a dirglielo," rispose l'uomo.

"Perché no?"

"Non sono autorizzato, questo è quanto. Ma posso lasciare un messaggio se è urgente".

"Ma deve sapere dove si trova, perché io gli scrivo sempre a questo indirizzo," protestò

Peter.

"Ecco, appunto," disse l'uomo. "Noi qui siamo solo una specie di ufficio postale, passiamo i messaggi da e per".

"Ma io vorrei sapere dove si trova così posso parlargli direttamente senza passare da voi".

"Non usiamo i telefoni," disse l'uomo," solo lettere e messaggi. Li spediamo con un servizio 5

di valigette diplomatiche".

"Ma è mio padre, e voglio parlargli. Non se la prenderebbe, mi scrive abbastanza spesso.

Anzi, sono sicuro che sarebbe contento e sorpreso se lo chiamassi. Perché non può darmi il

suo numero?"

"Non sono autorizzato a farlo, ecco perché," disse l'uomo, irritato. "Dovrà continuare a scrivergli e basta, ma può chiedergli di farsi chiamare o di darle il suo numero".

"Gliel'ho chiesto, ma mi ha detto che non sta mai nello stesso posto per molto tempo".

"Ecco, appunto".

"Ma allora come gli arrivano le mie lettere?"

"Beh, immagino che non ci sia alcun pericolo se glielo dico. Uno dei Messaggeri della

Regina le porta all'ambasciata britannica più vicina, che la passa poi a lui. Lo stesso accade

quando è lui a scriverle", spiegò l'uomo.

"E voi ricevete le lettere e me le spedite, giusto?"

"Esatto".

"Almeno ora so perché le sue lettere sono sempre spedite da Londra. Ho sempre pensato che

lavorasse lì," disse Peter.

"Sono sicuro che qualche volta lavora qui," disse l'uomo.

Maurice fu molto divertito quando Peter gli raccontò il fatto, e non poco orgoglioso che suo

figlio avesse mostrato una tale iniziativa. Per la prima volta, telefonò al ragazzo per una

chiacchierata, ma anche allora non gli disse dove si trovava. Fu elettrizzante, parlare con

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suo padre dopo tanto tempo, ma alla fine fu un evento unico, e il regolare scambio di lettere

venne mantenuto successivamente. Suo padre gli telefonò solo in altre tre occasioni. La

prima era per congratularsi con Peter per l'ammissione all'università, facoltà di lingue straniere, la seconda fu per congratularsi per essere stato accettato all'addestramento nell'esercito presso la Reale Accademia Militare di Sandhurst, e la terza, un anno dopo, fu

per dirgli quando era felice che Peter fosse stato promosso e fosse entrato nell'Intelligence.

l telefono del Maggiore Peter Northcot squillò. Il suo cellulare.

IGuardò l'orologio della radiolina digitale.

Quella era la seconda volta che andava a Hong Kong, ma nessuno lo aveva mai chiamato a

casa sul suo cellulare alle 04.37 del mattino. Di domenica. Nemmeno il telefono criptato

suonava a quell'ora. Neanche a Hong Kong. Comunque, non spesso.

Accese l'abate-jour, spinse il bottone per rispondere alla chiamata e disse 'pronto'.

“Con chi parlo?” disse una voce che non riconobbe.

“Chi vuole saperlo?”

Era sicuramente qualcuno che non conosceva. Tutti i suoi contatti erano nella rubrica del

cellulare, e sarebbe apparso sullo schermo se l'interlocutore fosse stato nella lista.

“Che numero è questo?”

“Il numero che lei ha digitato, probabilmente”.

“Voglio sapere con chi sto parlando,” disse la voce, irritata.

“Vuol dire con chi stava parlando” rispose lui, e mise giù.

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Il telefono squillò di nuovo. Era lo stesso numero di prima, ora registrato in automatico sul

cellulare e visualizzato sul piccolo schermo. Si appuntò il numero (un controllo veloce

avrebbe svelato il proprietario del cellulare).

“Ero al telefono con lei pochi secondi fa?” disse la stessa voce.

“Come potrei sapere con chi stava parlando pochi secondi fa?”

“Ho digitato lo stesso numero di prima, e lei mi sembra lo stesso tizio che ha risposto

l'ultima volta”.

“Ha la minima idea di che ora sia?”

“Quattro e mezzo; mi dispiace, ma è urgente”.

“Di che si tratta?”

“Devo parlarle”.

“Chiami il mio ufficio più tardi, allora, e il mio assistente fisserà un incontro. Ma solo dopo

che mi dirà chi è e cosa vuole e sarò io a decidere se è urgente o meno”.

Mise giù un'altra volta.

In realtà non aveva un vero e proprio ufficio. Non faceva quel tipo di lavoro. Ma aveva

ingaggiato un'agenzia che si occupava di situazioni come questa. Gli fornivano il numero

del suo 'ufficio', e poi lo monitoravano. In genere non accadeva spesso che qualcuno chiamasse, ma quando succedeva, glielo facevano sapere.

Il telefono squillò per la terza volta.

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“Sono pronto a scommettere che il numero che ho è giusto;” disse la voce. “sono a Singapore, e arriverò a Chek Lap Kok con l'UA 896. Incontriamoci lì. È urgente e importante. Mi riconoscerai”.

Questa volta l'uomo riagganciò prima che Peter potesse parlare. Che diavolo stava succedendo?

Peter richiamò il numero in memoria. Nessuna risposta. Nemmeno una segreteria telefonica.

Saltò giù dal letto, e andò nella piccola cucina per prepararsi del caffè e riflettere. Erano le

cinque ora. Se ben ricordava, c'erano circa quattro ore di volo da Singapore a Hong Kong,

quindi l'uomo non sarebbe arrivato prima delle 09.30. UA 896 aveva detto. United Airlines,

giusto? Americano. L'uomo non aveva un accento americano; era molto inglese, invece.

Non riconobbe la voce, ma il tizio aveva detto che Peter lo avrebbe riconosciuto.

Era tutto molto strano. A Peter non piacevano queste situazioni. Lo facevano sentire a

disagio, e lo innervosivano.

Telefonò all'aeroporto per controllare gli orari di arrivo del volo United Airlines. Partenza da

Singapore alle 06.40 e arrivo alle 10.30. Quindi l'uomo era ancora a Singapore. Chiamò di

nuovo il suo cellulare, ma ancora nessuna risposta. Forse a quest'ora si trovava nella sala

d'imbarco, a meno che non avesse cambiato piani; in quel caso sarebbe stato nella sala di

transito.

Northcot controllò il numero di cellulare. Non era stato memorizzato. Questo si che era

davvero strano, e non c'erano stati errori. Doveva essere in memoria, l'uomo aveva usato il

numero già tra volte quella mattina. Controllò ancora. Nessuna traccia.

L'intera faccenda iniziava a puzzare.

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Un uomo che si rifiutava di identificarsi, attraverso un numero di telefono che non esisteva,

che Peter non riconosceva ma che avrebbe riconosciuto una volta incontrato, sarebbe arrivato a Hong Kong entro poche ore, su un volo americano proveniente da Singapore, e

chiedeva di incontrarlo perché era 'urgente e importante'. Che stava succedendo?

C'era solo un modo per scoprirlo, decise Northcot, versandosi una seconda tazza. Andare

all'aeroporto e incontrarlo.

Telefonò a un contatto della sicurezza dell'aeroporto. Nonostante il fatto che Hong Kong ora

fosse sotto il diretto comando della Cina, un po' del “legame tra vecchi colleghi” dell'epoca

coloniale funzionava ancora. Un pass aeroportuale lo avrebbe aspettato agli arrivi, e Northcot avrebbe potuto osservare i passeggeri che scendevano dal volo United Airlines da

dietro un falso specchio. Se vedeva qualcuno che conosceva, poteva uscire a incontrarlo; se

era qualcuno che avrebbe preferito non incontrare, sarebbe rimasto lì in attesa che l'uomo se

ne andasse.

Peter Northcot decise di camminare fino a Lam Tin, e prendere il pullman A22 per arrivare

all'aeroporto. Solo 39 dollari, che gli sarebbero stati rimborsati, ed era una bella giornata per

la corsa di 34 Km da Kowloon. Non aveva molto altro da fare, comunque. Arrivò all'aeroporto presto, e fece colazione prima di ritirare il suo pass.

Il volo arrivò in orario, e passarono solo 15 minuti prima che i passeggeri iniziassero ad

arrivare al ritiro bagagli. La visuale dall'ufficio di sicurezza era la migliore che potesse

avere. Era sistemata in modo da avere una panoramica da vicino degli arrivi prima che i

passeggeri passassero i controlli doganali. Non riconobbe nessuno.

Si avviò, facendo il giro largo, verso la sala degli arrivi dall'altra parte della dogana, dove le

persone incontravano gli amici, i familiari o gli autisti delle macchine a noleggio che tenevano fogli di carta con sopra il nome dei propri passeggeri. Aveva accesso ad una

balconata sopra la folla, da dove poteva vedere senza essere visto. Ancora nessuno. Non

c'era nessuno che avesse riconosciuto, nemmeno fra la gente che si incontrava e si salutava.

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Controllò un'ultima volta. Tutti i passeggeri avevano lasciato la sala di arrivo, e non c'erano

bagagli del volo United sull'aereo, nell'ufficio immigrazione, o sul nastro trasportatore. Un

funzionario dell'aeroporto, rassicurato dal fatto che Peter avesse un pass, fu così gentile da

fornirgli una lista dei passeggeri. Nessuno di quei nomi gli ricordava qualcosa.

Tutto questo era completamente senza senso, pensò.

Non riusciva a capire cosa stesse accadendo. L'uomo che lo aveva chiamato tre volte ad

un'ora indecente del mattino, non aveva richiamato o lasciato un messaggio o qualcosa del

genere. Ma del resto, come poteva. Il suo telefono non esisteva.

Più ci pensava, più si sentiva a disagio. Supponiamo (solo, supponiamo) che lui, Peter

Northcot, fosse finito dritto in una trappola. Supponiamo (ma supponiamo soltanto) che

qualche canaglia o chiunque altro lo avesse voluto fuori di casa per un'oretta. Fuori dal suo

appartamento. La sua mente corse subito a ricordare cosa potesse esserci nell'appartamento.

Niente di valore, sicuramente; ma i documenti? Libri cifrari, forse? Era sicuro che non ci

fosse nulla di valore da trovare; nessuno poteva essere interessato a qualcosa lì dentro,

nemmeno i suoi avversari. Beh, ne era quasi sicuro.

Improvvisamente, cominciò ad avere fretta.

Corse all'ufficio di polizia più vicino, e in pochi minuti un'auto lo stava riportando (un po'

troppo velocemente) a Kowloon, lampeggianti blu, sirene e tutto il resto. Lo lasciarono

vicino all'appartamento, dopo aver spento le sirene qualche isolato prima. A Kowloon non

c'era mai silenzio, neanche a quest'ora della domenica, ma adesso non c'era nemmeno un'anima viva in giro. Corse velocemente fra diversi vicoletti, tagliando per l'isolato dove

viveva, e corse su per le scale antincendio, due gradini per volta. Le scale portavano all'entrata del palazzo con l'ascensore, un tappeto sbiadito e le vecchie stampe cinesi sul

muro. Non c'era nessuno, e l'ascensore era al piano terra.

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Il problema era che il suo appartamento aveva una sola porta d'ingresso. Una sola possibilità

per uscire.

Aveva uno spioncino nella porta, di quelli che ti fanno vedere chi c'è di fuori, al campanello.

Lo aveva modificato leggermente, così che anche lui potesse guardare dentro da fuori. Mise

a fuoco con cautela, e osservò all'interno dell'appartamento.

C'era un uomo in piedi alla finestra che dava sul balcone, a scrutare fuori sospettoso.

La sua figura era in controluce, quindi Peter non riusciva a scorgerne i dettagli, ma l'uomo

sembrava vestito in modo casual, e stava in piedi con le mani in tasca. Aveva una pistola?

L'uomo si allontanò dalla finestra, e diede un'occhiata noncurante al soggiorno. Guardò l'ora

sul suo orologio, e tornò ad ammirare la vista dalla finestra, le mani di nuovo in tasca.

Non sembrava minaccioso, ma Peter sapeva di dover entrare nell'appartamento in qualche

modo. E in fretta. Sentì che l'ascensore stava salendo. Inserì la chiave nella toppa facendo

meno rumore possibile, ed estrasse la sua pistola Smith and Wesson.

Con un movimento rapido, aprì la porta, irruppe nell'appartamento e si buttò a terra, puntando l'arma verso l'uomo alla finestra.

“Una mossa e sei morto”.

L'uomo venne colto di sorpresa e si immobilizzò, rivolgendo ancora la schiena verso Peter.

“Per amor di Dio non sparare,” lo pregò l'uomo.

Peter si alzò e chiuse la porta alle sue spalle.

“Metti le mani dietro la testa, una alla volta, lentamente,” ordinò Peter.

12

L'uomo lo fece, lentamente.

Peter camminò verso di lui, gli puntò la pistola alle costole e lo perquisì velocemente.

Niente pistole e niente coltelli.

Peter fece qualche passo indietro.

“Ora girati,” ordinò Peter. “Lentamente. Ho già avuto una brutta mattinata, quindi non farmi

innervosire ancora di più”.

L'uomo si voltò verso Peter.

“Salve, Peter,” disse. “Non ci vediamo da un bel po'”.

Questa volta, fu Peter ad essere colto di sorpresa. Scioccato, più che altro.

Abbassò la pistola.

“Papà! Che cavolo ci fai qui?”

“Una storia lunga, ma ho bisogno del tuo aiuto. È urgente”.

“Ora riconosco la voce. Eri tu al telefono da Singapore”.

“Ti ho telefonato io, ma non da Singapore. Volevo solo che chiunque stesse ascoltando

pensasse che mi trovavo lì”.

“Papà, hai un aspetto orrendo. Ma non mi sorprende, ti ho quasi ammazzato. Vieni a sederti,

ti porto qualcosa”.

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“Ho avuto un paio di settimane terribili, non lo nego. Non ho dormito molto e ho mangiato

poco. Ma non posso ancora rilassarmi. Devo tornare a Londra”.

Maurice Northcot sprofondò nel divano.

“Se non eri a Singapore, allora dov'eri? Sono andato in aeroporto per quel volo”.

“So che ci sei andato. Ma puoi aiutarmi a tornare a Londra?” lo pregò sui padre. “Sei la mia

unica speranza”.

“Certo che ti aiuto,” lo rassicurò Peter. “Vieni a sederti in cucina mentre ti faccio qualcosa

da mangiare, così mi racconti cos'è successo”.

“Ti prego, prima organizza il mio rientro a Londra”.

“Okay. Ma perché tutta questa fretta? Che succede? Perché non puoi semplicemente andare

in aeroporto e prendere un aereo per tornare a casa come farebbe chiunque?”

“Perché sto rischiando la vita, ecco perché, e ora potrei aver messo a rischio anche la tua.

Mi dispiace da morire per questo, ma avevo disperatamente bisogno di aiuto. Ecco perché

sono venuto qui”.

“Da dove?”

“Corea. Nord Corea, in effetti. Lavoro per i Servizi Segreti e sono stato mandato là per

ottenere informazioni fondamentali sul programma nucleare del paese. Il mio piano di fuga

è saltato, e molte persone che dovevano aiutarmi a scappare sono state uccise, o catturate, il

che probabilmente è anche peggio. Quindi ho dovuto cavarmela da solo. Ero appena a sud

di Pyongyang quando è andato tutto storto. Sono arrivato a Kaesong, viaggiando per lo più

di notte via fiume, e poi ho attraversato il confine sud del Paese. Ma non avevo soldi, a parte

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qualche dollaro americano, e non parlo la lingua locale. Non è stato molto più facile in Sud

Corea, ma alla fine sono arrivato qui”.

Peter era sconvolto.

“Ma perché qui? Perché sei venuto qui anziché andare in Giappone, che è più vicino?

L'Ambasciata di Tokyo avrebbe potuto aiutarti”.

“Non conosco nessuno in Giappone, né parlo la lingua, figuriamoci leggere in giapponese. E

all'ambasciata avrebbero saputo poco o nulla su di me. Non mi avrebbero mai accolto, e

probabilmente sarei stato catturato”.

“Ti stanno ancora cercando, allora, dal nord?”

“Quasi sicuramente. Quello che posseggo è troppo importante per loro, non me lo lascerebbero mai portare via senza combattere per riprenderselo, ecco perché sono venuto a

cercarti. Facciamo lo stesso mestiere, dopotutto, e tu parli il cantonese”.

“E come ci sei arrivato qui?”

“Diciamo solo che ce l'ho fatta usando mezzi poco convenzionali, ed è così che devo

andarmene. Senza documenti, non posso presentarmi all'aeroporto e comprare un biglietto

come se niente fosse”.

“Abbiamo diverse vie di fuga da qui,” disse Peter. “Adesso contatto la mia guardia del

corpo all'ambasciata. Ci aiuterà, anche se è domenica”.

Andò al telefono criptato.

“Suzy? Devo usare il

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