Salvati dalla Sua Vita by Marco Galli - HTML preview

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CAPITOLO 13

IL PERDONO E LA GRAZIA

 

 

 

Perché se voi perdonate agli uomini le loro colpe,

il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi;

ma se voi non perdonate agli uomini le loro colpe,

neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.

Vangelo di Matteo 6:14-15

 

 

 

In questo capitolo affronteremo il tema del perdono e della grazia, argomenti particolarmente centrali per la salvezza. Scopriremo come il significato che era attribuito a queste parole sottendesse, al tempo di Gesù, concetti sensibilmente diversi da quelli che gli attribuiamo noi oggi; questo a causa sia del divario culturale, che di alcune manipolazioni avvenute nel corso dei secoli e che hanno avuto come scopo quello di supportare una visione della salvezza diversa da ciò che Gesù lasciò intendere. Faremo anche luce su un malinteso che ha condizionato molta teologia e che è importante chiarire per donare nuovo senso alla vita dei Cristiani; ovvero, cercheremo di dimostrare come l’idea del perdono dei peccati non sia lo scopo ultimo dell’opera di Gesù, ma solo un passaggio intermedio, sebbene necessario, verso una prospettiva di ben più ampio respiro.

 

 

13.1. Il perdono

 

Innanzitutto, dobbiamo partire dal significato che ricopriva il concetto di perdono all’epoca di Gesù e dal peso che veniva attribuito a questa parola nella cultura ebraica. La parola utilizzata nel Nuovo Testamento per “perdono” è aphesis, che tradotto letteralmente significa “lasciare andare”. Quest’idea potrebbe risultare piuttosto estranea alla nostra cultura, poiché ha a che fare con il concetto di servitù debitoria che non appartiene più al nostro tempo. In sintesi, nel caso qualcuno avesse maturato un debito in denaro nei confronti di un altro soggetto, questi sarebbe rimasto “legato” fino a quando non avesse interamente saldato il dovuto. La non soddisfazione del debito, oltre a comportare la perdita di tutti i beni, come avviene ancora oggi, poteva implicare anche l’assoggettamento a servitù del debitore da parte del creditore. Il diritto si estendeva a tutti i membri della famiglia del debitore, che potevano anch’essi essere messi a servizio del creditore, fino a completo ripagamento del debito. Questa consuetudine, per noi poco comprensibile, ai tempi di Gesù era ammessa e largamente praticata; addirittura, nei confronti degli stranieri, non si trattava di servitù ma di vera e propria schiavitù. Le leggi ebraiche, rispetto a quelle dei Romani, erano tuttavia più morbide, poiché la schiavitù era riservata solo a persone non ebree e aveva una durata massima in concomitanza con le ricorrenze Giubilari; nonostante ciò, il mancato pagamento di un debito, comportava un trattamento duro anche per gli Ebrei che venivano assoggettati a servitù276 o arrestati e dati nelle mani degli esattori.277

Dunque, perdonare non era inteso quale moto emotivo nei confronti di una persona come lo intendiamo noi oggi, ma significava appunto “lasciare andare”, “slegare” il debitore,278 restituendogli in tal modo la libertà. Da un punto di vista spirituale, se applichiamo lo stesso concetto, commettere peccato nei confronti di qualcuno farebbe insorgere un “debito” morale del colpevole verso la parte offesa. È bene notare che questo vincolo, sebbene in forme diverse, influenzerebbe in qualche modo la libertà di entrambi nella relazione, la quale assume ora una dinamica differente rispetto a quanto avveniva precedentemente. Da ciò ne consegue che il perdono sarebbe vantaggioso per entrambe le parti, poiché scioglie il debito che tiene in qualche modo legati i soggetti in una relazione non più paritetica; perdonare significa pertanto sciogliere, lasciare andare, affinché le persone coinvolte ritrovino libertà l’una rispetto all’altra. Alla luce di quanto appena detto acquistano senso le parole di Gesù quando affermò che chiunque commette peccato è schiavo del peccato;279 si capisce bene, infatti, che qualunque atto, che arrechi danno od offesa a un’altra persona o a Dio, crei un vincolo che in qualche modo limita la libertà personale, come nel caso della schiavitù. Premesso che Dio non ha alcun interesse ad avere pretese di tipo legalistico nei nostri confronti, che siano limitanti e che arrechino danno all’autenticità della nostra relazione con lui, ma sia invece interessato alla riconciliazione e alla restaurazione di relazioni genuine fondate sull’amore, ne consegue che da parte sua vi sia sempre la piena disponibilità al perdono. In questo senso vanno lette le parole di Gesù quando affermò: “Lo Spirito del Signore […] mi ha inviato per annunciare la liberazione ai prigionieri e il recupero della vista ai ciechi; per rimettere in libertà gli oppressi, per proclamare l’anno accettevole del Signore.280 L’anno accettevole faceva riferimento all’anno del Giubileo, stabilito nel Capitolo 25 del Levitico, secondo il quale ogni 49 anni (7 volte 7 anni) tutti gli schiavi venivano liberati, i debiti cancellati e si dava luogo a un nuovo inizio. Gesù venne per comunicare l’intenzione di Dio di rimettere tutti i debiti, di perdonare tutti i peccati, senza alcuna sorta di compensazione o punizione, come avveniva nell’anno del Giubileo, perché era sua intenzione dare luogo a un nuovo inizio, a un nuovo patto che egli avrebbe stipulato con gli uomini.

Quest’idea del Giubileo annunciata da Gesù sembrerebbe in netto contrasto con tutta la teologia medievale della Soddisfazione e della Sostituzione Penale, che abbiamo visto nella prima parte del libro, secondo la quale Dio esigerebbe una soddisfazione dell’onore o un castigo per poter perdonare i peccatori. Quest’interpretazione, alquanto discutibile, risulta incoerente con ciò che Gesù annunciò; la remissione di un debito implica che il creditore si accolli interamente la perdita, non che trasferisca l’onere a un altro, altrimenti non sarebbe in alcun modo una remissione. Allo stesso modo, il perdono dei peccati consiste nell’assumersi il peso dell’ingiustizia subita, pur di favorire la riconciliazione, come vedremo nella parabola del figliol prodigo.

 

 

13.2. Il figliol prodigo

 

Questa parabola, una delle più note, è riportata nel Vangelo di Luca,281 e racconta la storia di un giovane ribelle che, ancor prima che il padre venga a mancare, chiede la sua parte di eredità per poterne godere. Il padre gliela concede e il giovane parte per un paese lontano dandosi a una vita dissoluta. Una volta sperperato tutto il denaro e ridotto ormai alla fame, il giovane decide di tornare dal padre e di darsi a lui come servitore, pur di avere un tetto e qualcosa da mangiare.

In primo luogo, dobbiamo comprendere alcuni aspetti essenziali; nelle culture mediorientali, come in quella ebraica, chiedere la propria eredità al padre prima della sua morte è considerata un’offesa gravissima, significa seppellirlo prima ancora che sia morto. Questo giovane, al di là del danno economico, stava arrecando un’offesa al padre e macchiandosi di tradimento nei confronti di tutta la famiglia, in proporzioni che noi fatichiamo a comprendere. In secondo luogo, notiamo che il figlio, sulla via del ritorno e consapevole del danno arrecato, vuole offrirsi come servitore al padre al fine di ripagare con il proprio lavoro il debito, come abbiamo visto era in uso fare. Questa sua intenzione, chiaramente, avrebbe creato un ostacolo all’autenticità della relazione tra padre e figlio, sostituendola con una relazione di tipo subordinata, legalistica, non libera.

Sappiamo bene come si concluse la storia, ma è necessario soffermarsi su alcuni dettagli. Innanzitutto, quando il figlio si riavvicinò a casa, il padre lo vide dalla distanza e ne ebbe compassione, gli corse incontro e, prima ancora che questi avesse tempo di parlare, lo abbracciò e lo baciò; un uomo che avrebbe dovuto essere infinitamente offeso e in collera, non mostrò alcun segno di rancore, anzi, incontenibile fu la sua gioia di poter riabbracciare il figlio. Non gli chiese nulla, non gli rinfacciò alcunché, non gl’intimò di ripagare quanto sperperato o di restaurare l’onore offeso, non lo punì. Il figlio si rammaricò, riconobbe la propria colpa e dicendo “Non sono degno di essere chiamato tuo figlio”, si stava implicitamente offrendo come servitore per ripagare il debito contratto. Ma il padre non volle sentire ragioni, gli fece portare le vesti più belle, gli mise l’anello al dito (che simboleggiava l’appartenenza alla famiglia) e fece ammazzare il vitello ingrassato (considerato il cibo più pregiato) per festeggiare il suo ritorno.282 Quanto esposto da Gesù in questa parabola rappresenta la dinamica del perdono che era, ed è tutt’oggi, praticata dagli Ebrei; non è possibile pensare che Gesù, raccontando tale parabola, avesse un’idea sul perdono diversa da questa, i cui punti principali possono essere così riassunti:

 

  • È necessario tornare a Dio per ricevere il perdono. La parola tradotta in italiano come “pentimento” o “ravvedimento”, nella lingua ebraica corrisponde a teshuva che significa letteralmente “ritorno”, o più precisamente indica un “voltarsi” e “tornare”; è dunque costituita da un doppio movimento: voltare le spalle al peccato e ritornare a Dio, al fine di andare incontro a un cambiamento di vita radicale.283 Questo doppio movimento è perfettamente rappresentato nella parabola nel momento in cui il giovane volta le spalle al peccato e fa ritorno al padre;
  • Solo una volta che si è tornati è possibile ricevere il perdono, si tratta quindi di una libera scelta che la persona deve compiere, di abbandonare le vie del peccato per ritornare a Dio. Ciò suggerisce che il perdono non può essere forzato su nessuno, ma deve maturare nella libera scelta;
  • Il perdono non richiede nessun pagamento, punizione o soddisfazione di sorta, ma solo un cuore sincero e disponibile a riceverlo. Infatti, vediamo che il padre, ancor prima che il giovane apra bocca, lo ha già perdonato e fa di tutto per convincerlo di perdono (baci, vestiti, anello, festa, etc.). Il padre, in tal modo, si sta facendo carico dell’ingiustizia subita, senza recriminare nulla nei confronti del giovane. Il vitello ammazzato e il suo sangue versato, non servono al padre per perdonare, ma al figlio per convincersi di essere stato perdonato e comprendere come il padre non nutra alcun rancore nei suoi confronti;
  • A questo punto la “palla” passa nelle mani del figlio che deve accogliere il perdono recuperando il suo posto in famiglia, oppure continuare a vivere come un servitore, nella costernazione per il male compiuto. Dovrà certamente andare incontro a un processo di guarigione per liberarsi dal senso di colpa e dalla vergogna, e per riappropriarsi degli affetti perduti, ma questo è un processo lungo, mentre abbiamo visto che da parte del padre non ci sia alcun ostacolo all’immediata riconciliazione. Ne consegue, che la salvezza è un lungo processo di liberazione e guarigione dagli effetti del peccato;
  • La parabola ci dice dunque, che Dio non ha nessun problema nel perdonare liberamente e di cuore; non deve essere rabbonito, soddisfatto o ripagato, ma suggerisce anche che noi abbiamo un problema nel ricevere il perdono, perché questo è un processo lungo e doloroso, che mette in gioco l’orgoglio, poiché ci confronta con il nostro fallimento.284

 

Questa modalità di ritorno/pentimento e perdono dei peccati era ciò che Dio aveva richiesto parlando per mezzo dei profeti nell’Antico Testamento, e fu un’idea perfettamente sposata da Gesù; Dio non è diviso in sé stesso e non richiese cose differenti nell’Antico e nel Nuovo Testamento, poiché la parola di Dio è una sola e univoca. Leggiamo infatti nel libro del profeta Ezechiele:

 

Ezechiele 18:30-32 Perciò io vi giudicherò ciascuno secondo le sue vie, casa d’Israele, dice il Signore, Dio. “Tornate, convertitevi da tutte le vostre trasgressioni e non avrete più occasione di caduta nell’iniquità! Gettate via da voi tutte le vostre trasgressioni per le quali avete peccato; fatevi un cuore nuovo e uno spirito nuovo; perché dovreste morire, casa d’Israele? Io infatti non provo nessun piacere per la morte di colui che muore”, dice il Signore, Dio. “Convertitevi dunque, e vivete!”

 

É sorprendente vedere come, ancora oggi, alcuni dei sistemi di riferimento per il perdono dei peccati in ambito cristiano siano distanti da ciò che Gesù insegnò con questa parabola. Egli non parlò mai di sacrifici, espiazioni, penitenze, punizioni o pagamenti che dovrebbero essere effettuati al fine di ottenere il perdono dei peccati, al contrario, disse che voleva misericordia e non sacrifici.285 Sarebbe dissociato da sé stesso se chiedesse misericordia agli uomini quando egli non fosse disposto alla stessa misericordia; e questo è esattamente ciò che vedremo nella prossima parabola, quella del servo malvagio.

 

 

13.3. Il servo malvagio

 

La parabola del servo malvagio è presente nel Vangelo di Matteo,286 in cui Gesù racconta di un re che volle fare i conti con i suoi servi. Si presentò uno dei servi che gli era debitore di diecimila talenti (cifra iperbolica che corrisponderebbe oggi a svariati miliardi di euro), e il suo signore ordinò che fosse venduto come schiavo, lui con tutta la sua famiglia, per ripagare il debito. Ma questi cominciò a implorare dicendo che avrebbe ripagato il debito e supplicò misericordia; il re, mosso a compassione, lo lasciò andare e gli condonò l’intero debito. A sua volta, il servo incontrò un altro servitore che gli doveva cento denari (qualche decina di euro) e presolo per la gola, lo intimava di pagare. Questi chiese pazienza, promettendo di ripagare tutto il debito, ma il primo servitore non ebbe pietà e lo fece rinchiudere in prigione fino a quando non avesse ripagato il debito. Il signore, venutolo a sapere, lo chiamò e lo rimproverò per non aver mostrato la stessa misericordia ricevuta, quindi, infuriato, lo diede in mano agli aguzzini. La parabola si chiude con la seguente affermazione di Gesù: “Così vi farà anche il Padre mio celeste, se ognuno di voi non perdona di cuore al proprio fratello.” Vediamo quali principi si possono trarre da questa parabola:

 

  • Ancora una volta, comprendiamo come sia necessario tornare al Signore per ottenere il perdono; è una nostra scelta e un nostro limite, non suo;
  • In modo analogo alla parabola del figliol prodigo, il perdono è “gratuito”, non richiede alcuna compensazione o espiazione, nessun pagamento, per la natura stessa del “lasciare andare”; infatti, se ci fosse qualche sorta di pagamento o punizione non sarebbe un condono;
  • Inoltre, viene qui introdotto un nuovo concetto, quello della condizionalità, secondo il quale, così come il servitore ricevette la remissione del debito, egli era tenuto a condonare a sua volta. Questo indica che il perdono, per quanto gratuito, sia condizionato e può essere revocato in qualsiasi momento se il ricevente non ottempera all’impegno morale di praticare la medesima misericordia.

 

A ulteriore conferma di questo principio Gesù affermò: “Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate; affinché il Padre vostro, che è nei cieli, vi perdoni le vostre colpe.287 Da quanto abbiamo appena visto ne discende che, se Dio chiedesse a noi di praticare misericordia e poi lui stesso non fosse disposto a concedere misericordia, si trasformerebbe egli stesso nel servitore malvagio della parabola. Tutte le teorie che ritengono che Dio esiga una soddisfazione o un pagamento tramite la nostra sofferenza o quella di Gesù, quale prezzo per i nostri peccati, stanno proiettando su Dio l’immagine del servitore malvagio della parabola, rinnegando ciò che Gesù insegnò e infangando il nome di Dio: “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro!288

 

 

13.4. La grazia

 

Nell’ambito del perdono, il concetto di “grazia” assume un significato centrale, la comprensione del quale è fondamentale per il nostro studio sulla salvezza. La grazia può essere così definita:

 

Grazia: concessione straordinaria (di un beneficio, di un favore o d’altra cosa richiesta) fatta per atto di generosità.289

 

Questa definizione rispecchia il concetto espresso dalla parola utilizzata nel Nuovo Testamento, “charis” (gratia in latino), che significava dono ricevuto per disposizione favorevole di colui che lo concede, in breve, “favore”. Tuttavia, per come lo intendiamo noi oggi, il favore è un dono gratuito e senza condizioni, ma non era così per gli antichi. Nella cultura greco-romana, la grazia, pur essendo una concessione benevola, richiedeva sempre un contraccambio da parte del ricevente e faceva insorgere un obbligo di restituzione; da un favore concesso ci si aspettava un ritorno, non necessariamente della stessa natura:

 

La reciprocità era fondamentale nella cultura romana. Doni e favori reciproci erano attesi tra membri della stessa famiglia, amici, o mecenati e i loro clienti. […] L'etica della reciprocità si basava su tre norme sociali in cui l'onore era considerato in gioco: benignitas (liberalità), gratia (gratitudine) e fides (lealtà o credibilità). Benignitas significava benevolenza, che, a sua volta, era considerata sincera solo quando si rivelava nella liberalità. Gratia era il riconoscimento accettato di sottostare all'obbligo di ripagare un favore. Sebbene questo fosse un obbligo a cui non ci si poteva sottrarre, gli atti che ne derivavano, per quanto simbolici, potevano comunque essere scelti liberamente.290

 

La reciprocità è il principio e la pratica della ricompensa volontaria, di beneficio per beneficio (reciprocità positiva) o danno per danno (reciprocità negativa). Si trova in vari tipi di pratiche e discorsi greci [...] come un valore etico, come un fattore nelle relazioni interpersonali, come un elemento di coesione politica, come elemento economicamente significativo, come un modo di strutturare le relazioni umane con la divinità.291

 

Il concetto di grazia, per gli antichi, era dunque soggetto a un obbligo morale di restituzione la cui non ottemperanza avrebbe causato disonore. Quest’idea si sviluppò nell’ambito di economie originariamente fondate sul baratto nelle quali, da una prestazione, sorgeva l’obbligo di una controprestazione di pari valore, ma si era poi allargato anche ad altri ambiti sulla base delle consuetudini e veniva chiamato “contraccambio”; chiunque avesse fatto un favore si sarebbe pertanto aspettato di ricevere un’adeguata contropartita, nulla veniva fatto senza attendersi un beneficio in cambio. Su questi presupposti fu forgiata la teoria della Soddisfazione di Anselmo nell’undicesimo secolo, che è ancora oggi il substrato delle teorie della salvezza maggiormente accettate. Egli riteneva, infatti, che gli uomini dovessero restituire qualcosa a Dio per il perdono dei peccati, ma non essendone in grado, Gesù provvide al loro posto.

Tuttavia, Gesù andò oltre il sistema della reciprocità, sia essa positiva,292 che negativa,293 istituendo un nuovo paradigma rivoluzionario, quello della solidarietà, secondo il quale, chiunque elargisca un favore, lo deve fare senza attendersi un conseguente beneficio personale. Così facendo, egli gettò le basi e creò i presupposti per il passaggio da una società arcaica, fondata sul contraccambio, a una società evoluta basata sulla solidarietà.294 Per giungere a questo obiettivo è però necessario che i membri di una siffatta società siano solidali gli uni gli altri, in modo tale da costituire un tessuto sociale imperniato sull’amore. La grazia è pertanto gratuita ma condizionata, e non richiede altro che pari misericordia condivisa. Abbiamo visto, ad esempio, nella parabola del servitore malvagio, che la grazia concessa per il condono del debito non portava con sé alcuna obbligazione materiale, se non la condizione di concedere uguale grazia ad altri. Analogamente, nella parabola del figliol prodigo, il padre non si aspetta alcun contraccambio, se non l’impegno da parte del figlio di riprendere il suo posto in famiglia e accogliere la misericordia ricevuta. Parimenti, chiunque abbia ricevuto la grazia del perdono dei peccati, non è chiamato a rendere nulla a Dio, ma solamente ad accogliere e praticare la misericordia, andando incontro a un cambiamento di vita improntato alla giustizia, come vedremo nel prossimo paragrafo.

 

 

13.5. La donna adultera

 

Questa vicenda, raccontata nel Vangelo di Giovanni,295 ci parla di una donna che, colta in flagrante adulterio, venne condotta dagli Scribi e dai Farisei a Gesù per essere giudicata. Nelle loro menti contorte sapevano bene che la legge di Mosè puniva l’adulterio con la lapidazione, cercavano quindi d’incastrare Gesù; infatti, se egli avesse condannato la donna alla lapidazione secondo la legge, avrebbe mostrato poca di quella misericordia che predicava continuamente, mentre, se l’avesse perdonata, sarebbe stato accusato di violare la legge di Mosè. Ma, come sappiamo, Gesù li prese alla sprovvista e disse loro: “Chi è senza peccato scagli per primo la pietra su di lei.” Questo, oltre a metterli di fronte alla propria corruzione morale e alla doppiezza del loro tentativo di screditare Gesù, fece sì che la folla comprendesse che non c’è alcuno che non sia bisognoso di perdono e di guarigione, e che la misericordia che Dio offre è disponibile a chiunque ritorni a lui. La donna, infatti, al pari del figliol prodigo, venne perdonata da Gesù prima ancora di aver aperto bocca, ma qui Gesù mostrò che si aspettava qualcosa da lei: “Neppure io ti condanno; va’ e da ora in poi non peccare più”, e lo stesso disse al paralitico guarito presso la vasca di Betesda: “Ecco, tu sei guarito; non peccare più, ché non ti accada di peggio.296 Dunque, la richiesta di Gesù era chiara, parafrasando potremmo dire: “Io ti perdono a titolo di favore, ti lascio andare senza alcun merito o punizione di sorta (grazia), ma mi aspetto che tu modifichi la tua condotta e cambi vita, ovvero che tu vada incontro a un cambiamento che ti porti a non commettere più gli stessi errori, affinché non ti accada di peggio.” Questo era ciò che aveva annunciato anche Giovanni il Battista, il quale predicava un battesimo di ravvedimento per il perdono dei peccati, invitando a un cambio di vita e a portare frutti degni della conversione.297

Vediamo nella prossima parabola quali siano gli esiti che attendono chiunque rifiuti la grazia.

 

 

13.6. I vignaiuoli malvagi

 

Abbiamo visto, ai punti precedenti, come Dio conceda la grazia, dall’alto della sua misericordia, a chiunque ne faccia richiesta tornando a lui con un cuore sincero e una disposizione umile, pronto ad accettare un cambiamento di vita. Ma cosa accade se, una volta ricevuto il perdono, non ci si attiene all’obbligo morale? Per comprendere questo caso facciamo riferimento a un’altra parabola esposta da Gesù, quella dei vignaiuoli malvagi, riportata in tutti e tre i Vangeli sinottici.298

Nella parabola, un padrone di casa piantò una vigna e la dotò di tutte le infrastrutture necessarie al buon funzionamento; poi l’affidò a dei vignaiuoli e partì per un lungo viaggio. Quando fu la stagione della raccolta mandò i suoi servi per riceverne i frutti, ma i vignaiuoli, alcuni li scacciarono, altri li lapidarono e altri ancora li uccisero. Allora, il padrone mandò il proprio figlio pensando: “Avranno rispetto per mio figlio”, ma i vignaiuoli, quando videro il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede; venite, uccidiamolo e facciamo nostra la sua eredità”, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. Quando verrà il padrone della vigna che cosa farà a quei vignaiuoli? La risposta è chiara: “Li farà perire malamente, li sterminerà e darà la vigna ad altri che gli renderanno i frutti a tempo debito.” Vediamo i principi generali espressi in questa parabola:

 

  • Si comprende che la grazia di Dio è paziente e abbondante, e muove sempre il primo passo. Nonostante i servi inviati, che rappresentano i profeti, fossero stati scacciati o uccisi, il padrone continuò a inviarne altri, arrivando perfino a mandare suo figlio pur di restaurare la relazione con loro;
  • Ne deriva che la giustizia, che nella parabola viene rappresentata dalla buona gestione, consista nell’ascolto del messaggio di Dio ricevuto per mezzo dei profeti e del Figlio, dall’accoglienza del quale proviene un rinnovato impegno morale a un cambiamento di vita, che produca