Salvati dalla Sua Vita by Marco Galli - HTML preview

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CAPITOLO 15

IL PECCATO E LA LEGGE

 

 

 

Il popolo che stava nelle tenebre,

ha visto una gran luce;

su quelli che erano nella contrada

e nell’ombra della morte

una luce si è levata.

Vangelo di Matteo 4:16

 

 

 

In questo capitolo affronteremo un tema alquanto dibattuto e spesso al centro delle predicazioni nella maggior parte delle Chiese; parleremo del peccato. È un tema importante, poiché tutti siamo ben consapevoli delle conseguenze che esso esercita nelle nostre vite e di come ognuno di noi abbia, almeno una volta nella vita, dovuto lottare e soffrire per far fronte alle conseguenze causate da ciò che chiamiamo peccato. Non solo individualmente, pensiamo anche a come il mondo sia lacerato da comportamenti che portano a gravi conseguenze sociali e ambientali, basti citare le guerre, il crimine, la corruzione, l’inquinamento, etc. Come sarebbero le nostre vite e il mondo senza il peccato? Per rispondere a questa domanda cercheremo innanzitutto di comprendere cosa sia esattamente il peccato; successivamente sarà fondamentale liberarsi da alcuni pregiudizi che, a partire dal Medioevo, hanno in qualche modo distorto la concezione originaria, ingenerando sensi di colpa e indegnità che non sono compatibili con quanto insegnato da Gesù. È bene però ricordare che, come abbiamo visto precedentemente, il problema del peccato è un fattore intermedio e non ultimo nel percorso della salvezza; è utile divenire consapevoli delle implicazioni a esso associate, però è altrettanto necessario andare oltre, per non rimanere invischiati in sterili discussioni. Gesù, infatti, venne a chiamare i peccatori, per farli uscire dalla logica di peccato-colpa-castigo e al fine di farli entrare in un nuovo paradigma, quello del perdono e della misericordia di Dio, in novità di vita.

 

 

15.1. Il peccato

 

Quasi tutti concordano sul fatto che il peccato sia il grande problema dell’umanità; immaginiamo infatti quanto sarebbe meravigliosa la vita se non ci fossero invidie, discordie, avidità, frodi, corruzione, ipocrisie, maldicenze, abusi, cattiverie, etc.; tutto sarebbe decisamente più facile. Sebbene ci troviamo d’accordo sul fatto che il peccato sia il problema del mondo, c’è minore consenso nell’identificare quale sia esattamente la natura di questo problema. Dunque, prima di cominciare le nostre riflessioni, è bene indirizzare il significato generale poiché, per quanto sia argomento dibattuto, in realtà non vi è unanimità di vedute e si riscontra una percezione piuttosto confusa, a volte contraddittoria, sull’argomento “che cos’è il peccato?”.

In linea generale, sembrerebbe di poter affermare, sulla base del senso comune, che “peccare” sia il non attenersi a una serie di regole prestabilite da Dio; il problema, a questo punto, si tradurrebbe nel capire quali siano queste regole. Ad esempio la Torah, la legge data da Mosè, oltre ai dieci comandamenti che tutti ben conosciamo, contiene un totale di 613 leggi, e nel Nuovo Testamento, se contiamo imposizioni, raccomandazioni e comandamenti, altri 1.050; per un impressionante totale di 1.663 prescrizioni.354 Alcune di queste regole, come ad esempio il divieto di indossare indumenti misti,355 di mangiare crostacei,356 o lavorare di Sabato,357 risultano completamente estranee alla nostra cultura, hanno poco o nulla di immorale e sono ben lungi dall’essere oggi considerate peccato dai Cristiani. A complicare ancora più le cose, l’Apostolo Paolo affermò che non siamo più sotto la legge di Mosè, ma sotto la grazia e quindi non siamo più tenuti ad attenerci a quelle norme,358 ma allo stesso tempo ne istituì altre, come ad esempio l’obbligo per le donne di indossare il velo durante la preghiera e il divieto per gli uomini di portare i capelli lunghi.359 Cercando di risolvere il problema per i nuovi convertiti non Ebrei, gli Apostoli stabilirono infine di ridurre la legge a tre sole prescrizioni, tutte legate a pratiche tipicamente pagane in uso presso i Gentili, anch’esse piuttosto estranee alla nostra cultura, che vietavano ad esempio di mangiare carne sacrificata agli idoli e bere sangue.360

Per farla breve, una gran confusione, a motivo della quale la maggior parte dei Cristiani si limita a considerare peccato l’infrazione di uno dei dieci comandamenti o di altre prescrizioni particolari della Chiesa di appartenenza, soprattutto in tema di sessualità. Dimostreremo come questo sia non del tutto corretto, ma per farlo dovremo prima comprendere quale fosse il concetto di peccato presso il popolo ebraico ai tempi di Gesù e degli Apostoli.

 

 

15.2. Purezza e impurità - taharah e tum'ah

 

Prima di arrivare a rispondere alla nostra domanda “che cos’è il peccato?”, dobbiamo chiarire un concetto assolutamente fondamentale all’epoca di Gesù, ma che ci risulta oggi totalmente estraneo; il concetto di “purezza e impurità”, senza conoscere il quale rischiamo di travisare molto di ciò che Gesù disse. Per gli Ebrei, l’idea di purezza era fondamentale per poter partecipare alla vita pubblica e alle cerimonie religiose e non ci si poteva accostare alle cose sante senza aver compiuto tutta una serie di rituali di purificazione. Per definire qualcosa come “puro” veniva utilizzato il termine taharah con il significato di luminoso o splendente, oppure yaw-shawr ovvero diritto, retto. Il termine stesso “santo” derivava da kaw-dash che significava pulito ed anche completo, integro. Lo stato d’impurità, all’opposto, era indicato dalla parola tum'ah col significato di sudicio e ripugnante, o da naw-dad che derivava dal verbo ondeggiare, vagare, allontanarsi. Alcune fonti361 affermano che lo stato tameh (impuro) indicava una persona “sepolta”, quindi morta, incapace di ricevere la luce divina e aveva una connotazione spirituale piuttosto che fisica:

 

Tum'ah e taharah sono, soprattutto, concetti spirituali e non fisici [...] L’insegnamento chassidico spiega che in sostanza, tum'ah, “impurità spirituale”, è definibile come “assenza di santità”. La santità è chiamata “vita”, “vitalità”; è ciò che è unito ed emana dalla fonte di tutta la vita, il Creatore. [...] D’altra parte, ciò che è distante o separato dalla sua fonte è chiamato “morte” e “impurità”. Secondo la legge della Torah, la morte è la causa principale di ogni tum'ah; [...] Quindi, se spogliamo le parole “puro” e “impuro” delle loro connotazioni fisiche, e percepiamo il loro vero significato spirituale, vediamo che ciò che realmente significano è la presenza o l’assenza di santità [vita].362

 

Con il termine purezza o santità si soleva pertanto indicare la luce e la perfezione di Dio, senza macchia, e questa coincideva con la “vita”, poiché Dio stesso è vita; al contrario, tutto ciò che era privo di vita era considerato impuro, immerso nelle tenebre, morto e sepolto. In altre parole, la purezza era costituita dalla vita, dalla forza vitale, dalla luce e da tutto ciò che era retto, vero e giusto; l’impurità era invece identificata con la morte, la malattia, le tenebre e tutto ciò che era ondivago, instabile e falso. Questo concetto è estremamente importante, poiché afferma che la purezza è una manifestazione della vita, mentre l’impurità è un’assenza della stessa, la morte.

Alcuni esempi possono aiutare a comprendere che cosa si intendesse per impurità e come questo avesse a che vedere con la vita e la morte. Una delle maggiori “fonti” di contaminazione erano considerati i cadaveri, sia umani che di animali: “Chi avrà toccato il cadavere di una persona umana sarà impuro sette giorni”;363 la morte veniva quindi intesa come qualcosa di contaminante. Meno immediata la comprensione del perché una donna, durante il periodo mestruale, venisse considerata impura: “Quando una donna avrà perdite di sangue per le mestruazioni, la sua impurità durerà sette giorni; e chiunque la toccherà sarà impuro fino a sera.364 In questo caso si riteneva che, essendo il sangue vita, perderne significasse perdere vita, incorrere di fatto in una piccola “morte”.365 Infine, il mancato rispetto del riposo sabbatico aveva come conseguenza l’impurità, poiché era considerato il giorno dedicato a ricaricarsi dell’energia vitale persa durante la settimana e questo lo si faceva riavvicinandosi alla sorgente stessa della vita, a Dio, attraverso la preghiera, la meditazione, l’ascolto e lo studio della Bibbia. Da ciò se ne deduce che l’impurità derivava dall’allontanarsi dalla sorgente della vita e dall’entrare in contatto con la morte. Questo spiega alcune espressioni utilizzate da Gesù, quando ad esempio disse: “Voi siete già puri a causa della parola che vi ho annunciata”,366 poiché intendeva dire che la sua parola, la parola di Dio, purifica in quanto dona la vita; “Le parole che vi ho dette sono spirito e vita.367 “Morti” erano invece tutti coloro che si erano allontanati dalla sorgente della vita, la parola di Dio.368 In sintesi, si potrebbe intendere “purificare” equivalente a “vivificare”:

 

Salmo 119:154 Difendi tu la mia causa e riscattami; dammi la vita secondo la tua parola. 156 Le tue compassioni sono grandi, Signore; dammi la vita secondo i tuoi giudizi. 159 Vedi come amo i tuoi precetti! Signore, dammi la vita secondo la tua bontà.

 

Per Gesù frequentare persone potenzialmente impure non fu mai un problema, essendo lui stesso la soluzione,369 la parola di vita; ciò nonostante, per il popolo venire considerati impuri implicava l’essere emarginati dalla società e l’impossibilità di partecipare alle cerimonie religiose; spesso queste persone dovevano persino lasciare la propria casa e vivere all’esterno della città in capanne o ghetti costruiti appositamente per coloro che avevano un’impurità permanente. Questo spiega il dramma della donna emorroissa370 che aveva perdite di sangue da 12 anni e di coloro che i Vangeli descrivono come “lebbrosi”,371 i quali vivevano in uno stato di costante impurità, stigmatizzati ed emarginati da tutti. Tuttavia, era abbastanza normale incappare in un’impurità temporanea, poiché essa faceva parte della vita di tutti i giorni ed erano previste pratiche di purificazione per poter tornare nella comunità. Basti pensare che ogni donna in età fertile era considerata impura per circa due settimane ogni mese e questo era considerato naturale, al pari delle ciclicità esistenti in natura:

 

I rituali di purificazione e i chiari principi di separazione guidano le manifestazioni della morte verso l’integrazione con quelle della vita, consacrando le esperienze quotidiane della dualità. La morte è sia abbracciata che contenuta con riverenza. [...] Ciò che il lettore contemporaneo potrebbe inizialmente scambiare per un’ossessione per la pulizia, l’ordine e la separazione, è meglio compreso come un complesso sistema di significato, che onora la sacralità e il mistero insito nel rapporto ciclico tra inizio e fine, e nelle intersezioni di vita e morte.372

 

Nonostante tale saggezza, l’élite religiosa, arrogandosi uno status di presunta purezza, aveva assoggettato gran parte del popolo sotto una cappa d’impurità e indegnità emarginando in tal modo i più deboli e alimentando il sistema sacrificale delle purificazioni, dal quale essa traeva ingenti guadagni. Contro questo atteggiamento ipocrita Gesù non risparmiò parole molto dure: “Voi, Scribi e Farisei ipocriti, siete simili a sepolcri imbiancati, che appaiono belli di fuori, ma dentro sono pieni d’ossa di morti e d’ogni impurità”,373 accusandoli in tal modo di essere loro i veri impuri. Gesù, dunque, non negò la verità implicita nel concetto di purezza e impurità, semplicemente la riformulò, affermando che non è ciò che proviene dall’esterno, ma ciò che esce dal cuore a rendere un uomo impuro, quindi “morto”, ovvero privo della luce e della vita di Dio: “Ciò che esce dalla bocca viene dal cuore, ed è quello che contamina l’uomo. […] ma il mangiare con le mani non lavate non contamina l’uomo.374 É l’intenzione del cuore che contamina l’uomo, perché allontana da Dio; Gesù, infatti, non ebbe mai alcun problema a interagire con pagani, lebbrosi, donne (potenzialmente impure), ciechi e storpi (considerati nati nel peccato) e restituì loro voce, dignità e quella vita piena che i religiosi avevano invece loro negata.

Alla luce di tutto ciò riconsideriamo le parole di Gesù quando disse: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza375 e “Io sono la via, la verità e la vita.376 Ne consegue che Gesù venne per purificarci, ovvero per ricondurci a Dio e donarci la vita, poiché egli stesso è la parola che dà la vita. Perciò Gesù disse loro: “In verità, in verità vi dico che se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo [la parola] e non bevete il suo sangue [il suo Spirito], non avete vita in voi.377

 

 

15.3. Il peccato nella concezione ebraica

 

Nella lingua ebraica, utilizzata per la stesura dell’Antico Testamento, vi era un gran numero di termini impiegati per indicare il concetto di peccato, qualcuno ne stima addirittura 20, tuttavia 3 sono quelli principali:

 

Chatta'ah: è il termine più comunemente utilizzato e viene tradotto in italiano come “peccato”. Derivante dalla radice ht’, appare 459 volte nella Bibbia. Letteralmente significava “mancare il bersaglio”, dando l’idea di qualcosa che fallisce nel compiere la cosa giusta. Nella lingua greca, utilizzata per il Nuovo Testamento, lo stesso concetto viene rappresentato dalla parola hamartia con analogo significato di “mancare il bersaglio”.

 

Pesha’: la radice psh’ ricorre nella Bibbia 136 volte e viene comunemente tradotta in italiano con “trasgressione”. Essa rappresenta il senso di violazione, di rottura di un accordo o di una relazione tra due parti, di un patto.

 

Awon: il verbo ‘awah è utilizzato 17 volte nella Bibbia e nella sua forma di sostantivo 227 volte, con il significato di “perverso” e “contorto” per indicare una persona disonesta e immorale, che non cammina rettamente.

 

Da queste definizioni possiamo dedurre che il peccato, per gli Ebrei, consisteva nel non attenersi al rispetto del patto con Dio costituito dalle prescrizioni della legge di Mosè e ciò veniva considerato un fallimento (mancare il bersaglio), a maggior ragione se avveniva in maniera intenzionale. Non era, come per noi, un fatto morale, ma semplicemente una violazione del vincolo di obbedienza che rovinava la giusta relazione con Dio. Un atteggiamento contorto, volto a manipolare o eludere i comandamenti di Dio, era considerato la forma più abbietta di peccato. In sintesi, possiamo dire che il peccato era costituito dalla rottura della relazione con Yahweh, derivante dal mancato rispetto del giuramento di obbedienza alla Torah; era un tradimento della fiducia e considerato una vergogna. La disobbedienza nei confronti di un superiore rappresentava infatti un’offesa poiché, nella relazione tra subordinato e superiore, l’obbedienza era sempre dovuta, e il peccato rappresentava un’infrazione del giuramento di lealtà. Ricordiamo che quando il popolo d’Israele ricevette la Torah da Mosè giurò assoluta obbedienza a essa. Pertanto, possiamo concludere che per gli Ebrei, la non osservanza dei 613 comandamenti contenuti nella Torah, rappresentava un tradimento del patto. Anche la non osservanza di uno solo di quei comandamenti costituiva una violazione del vincolo.378

 

Il “peccato” contro Dio era concepito come una “offesa”, come un fallimento nell’adempimento dei propri obblighi verso Dio. Poiché la radice ht’ denota un’azione, questo fallimento non è né un’astrazione né una decadenza permanente, ma un atto concreto con le sue conseguenze. Questo atto è definito come un “fallimento”, una “offesa”, quando è contrario a una norma che regola le relazioni tra Dio e l’uomo.379

 

Non si trattava di una valutazione di tipo morale, semplicemente era il rispetto di quanto stabilito dal Signore, sulla base di un giuramento, indipendentemente dal fatto che le prescrizioni avessero valore morale o meno; il re Davide, dopo l’adulterio con Bat-Sceba e aver fatto uccidere suo marito Uria, pregò rivolgendosi al Signore: “Ho peccato contro te, contro te solo, ho fatto ciò che è male agli occhi tuoi”,380 non tanto per ciò che aveva commesso, ma poiché aveva tradito il patto con Dio.

Tuttavia, è bene precisare che Dio non diede i comandamenti a proprio vantaggio, ma per il bene degli uomini. Il mancato rispetto delle sue prescrizioni, il peccato, non costituisce solamente un’offesa nei suoi confronti, provoca piuttosto un danno a chi lo compie, danneggiando persone, relazioni e collettività. Se mai Dio fosse offeso, non lo è perché abbiamo disobbedito alle sue leggi, ma perché ci siamo feriti a vicenda e abbiamo distrutto la nostra stessa casa; la sua misericordia è infinitamente superiore e pronta a perdonare ogni offesa, ma ciò che resta è il danno e il dolore procurato da chi ha abusato di sé stesso e degli altri.

È necessario riconsiderare il peccato alla luce di quanto abbiamo visto nel precedente paragrafo sull’impurità; i comandamenti erano infatti stati dati non per fare piacere a Dio, ma per evitare una “contaminazione” agli uomini. Ricordiamo che impuro era ciò che si allontanava da Dio, che era privato della sua vita, morto. Pertanto, il peccato, il mancato rispetto delle norme, non era di per sé un problema se non nella misura in cui allontanava da Dio e conduceva alla morte. Dio disse ad Adamo che se avesse disobbedito al suo comandamento di mangiare dall’albero della conoscenza del bene e del male, sarebbe certamente morto;381 lo stava mettendo in guardia dalla morte, non lo stava “minacciando di morte” se non avesse obbedito.

I religiosi invece, mettevano a morte gli uomini che non rispettavano il sabato, e Gesù disse loro che la legge del sabato era stata data per gli uomini,382 per ridare loro vita, mentre i Farisei, utilizzando quella stessa legge, distruggevano la vita, l’esatto opposto dello scopo per cui la legge era stata data. I comandamenti di Dio sono dati per gli uomini, il mancato rispetto degli stessi (peccato) danneggia gli uomini, non Dio, e provoca morte. Per questo il Padre, lungo tutta la Bibbia, chiama costantemente gli uomini ad abbandonare il peccato e a tornare a lui, poiché lui è la sorgente della vita, mentre il peccato conduce alla morte. Il peccato non è una questione morale o legalistica, è una questione spirituale, è tutto ciò che altera e interrompe la giusta relazione con Dio, la fonte della vita, e avvelena le relazioni tra gli uomini. La salvezza è una questione di vita o di morte.

Gesù disse che non era venuto a chiamare i giusti, ovvero coloro che sono già nella giusta relazione con Dio, ma venne per chiamare i peccatori,383 quelli che hanno smarrito la via; venne per cercare ciò che era perduto,384 non per condannare i peccatori,385 ma per chiamarli alla teshuva, ossia a voltare le spalle al peccato e alla morte e tornare a Dio, alla vita. È necessario cambiare prospettiva: il peccato non è un debito con un prezzo da pagare a Dio, ma è tutto ciò che ci allontana da Dio, inclusa quella stessa religione che insegna l’idea di un Dio offeso che ha bisogno di essere soddisfatto o risarcito.

Con Gesù, come abbiamo già visto, venne superato l’antico patto, quello della legge di Mosè, con l’introduzione di un nuovo patto, quello dell’amore reciproco: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati”, che superava il precedente patto e ne costituiva il compimento.386 Trasponendo il medesimo concetto, possiamo dire che il “peccato”, per i Cristiani, è costituito dall’infrazione dell’unico comandamento dell’amore. Trasgredire il comandamento dell’amore, intraprendendo relazioni personali che danneggino sé stessi e gli altri, sarebbe dunque un tradimento del patto, che guasta la nostra relazione con Dio e di conseguenza introduce morte nella nostra vita. Non stiamo parlando di prescrizioni in merito a cibi, vestiti, o festività da rispettare, ma di comportamenti volti a custodire e coltivare con amore le relazioni, il bene della nostra comunità di riferimento e, in senso più ampio, dell’intera comunità umana. La responsabilità collettiva rappresentava infatti per gli Ebrei una questione di primaria importanza, molto più di quanto lo sia per noi oggi. La saggezza implicita nel comandamento dell’amore reciproco ci porta a un nuovo livello, poiché mostra quanto le vite di tutti siano interconnesse e come le azioni di ciascuno influiscano sul bene comune. Se ad esempio gettassi una bottiglietta di plastica in mare, non starei infrangendo alcun comandamento esplicito della Bibbia, ma starei danneggiando l’ambiente, gli animali, l’ecosistema e di conseguenza anche l’intero genere umano, me stesso incluso, trasgredendo in tal modo il più importante comandamento dell’amore. È un altro livello, che va oltre la legge e ci avvicina a Dio. Questo nuovo patto supera il precedente, lo porta a compimento, poiché diventa “vivo”, conduce alla verità dell’amore a tutto tondo, ed è incentrato sulla relazione tra Dio e gli uomini e tra gli uomini, chiamati ad amarsi vicendevolmente e a divenire portatori dell’amore:

 

Il peccato non è un fallimento nel diventare come Dio, ma un fallimento nel diventare come gli esseri umani che Dio vuole che siamo. E poiché Dio voleva che vivessimo in relazione gli uni con gli altri, che godessimo della sua creazione e che ci prendessimo cura delle piante e degli animali, il peccato si verifica quando non riusciamo a fare nessuna (o tutte) queste cose. [...] Il peccato ha a che fare con l’alienazione da Dio, dalla creazione e gli uni dagli altri. Rompe le nostre relazioni, ostacola la nostra comunione e rovina il nostro dominio sulla terra.387

 

 

15.4. L’impurit?